Dionigi Tettamanzi

DIAGNOSI PRENATALE E ABORTO SELETTIVO


     Non sono di oggi i problemi etici legati alla diagnosi prenatale. Oggi però, assumono aspetti nuovi, che ne rilevano, insieme alla complessità, la singolare importanza e urgenza. Al punto che la consultazione genetica, nella nuova situazione che si è venuta a creare, costituisce oramai uno dei maggiori campi della preoccupazione e della riflessione morale.
     La situazione è nota. Il primo dato che s’impone sono le innovazioni tecnologiche che hanno raggiunto l’uomo non solo nella sua nascita, ma anche nella sua prenascita. Il feto umano, da sempre ritenuto come un recluso nel grembo materno, un oggetto misterioso dall’esito fatale, adesso può essere osservato dai mezzi diagnostici, seguito nel suo sviluppo, difeso a mezzo di farmaci, e persino raggiunto dai mezzi chirurgici. È uno sviluppo scientifico-tecnico segnato da una profonda ambivalenza, perché carico insieme di possibilità positive di conoscenza sempre più precise e di interventi curativi sempre più numerosi, e di rischi d’abuso: nell’atto stesso di vedersi accrescere il proprio potere sulla vita, l’uomo si vede pure moltiplicato il potere di dare la morte. Scaturisce da qui la necessità, l’appello ad una più grande responsabilità: in concreto, le nuove possibilità diagnostiche, sempre più tempestive e sicure, rendono più facile, quando sono infauste, la scelta dell’aborto.
     Siamo così ad un secondo dato della situazione: l’accresciuta, anzi generalizzata possibilità di ricorrere alla diagnosi prenatale, e più ancora la sua reclamizzazione indiscriminata, provocano in molte donne una specie di "necessità" di accertare in anticipo le condizioni del nascituro, anche quando la diagnosi non è motivata. Nel contempo viene alimentata una gran paura di fronte a ogni indizio non chiaro, e questa, a sua volta, spinge molte madri, nel caso di sospette imperfezioni del feto, a garantirsi con l’aborto contro l’ipotesi del figlio difettoso. L’esito di una scelta abortista, ritenuta facilmente un diritto — e per taluni anche un preciso dovere —, risulta tanto più "comprensibile" quanto più l’interruzione volontaria della gravidanza si è praticamente (e legalmente) allargata ad una serie quasi indefinita di casi o di "indicazioni" che non hanno affatto la stessa o analoga gravità/drammaticità delle prognosi infauste. Tutto questo si collega con una cultura abortista che pesantemente segna l’attuale situazione sociale. Di nuovo emerge l’appello decisivo ad una responsabilità veramente matura, sollecitata sempre più in termini critici e personali di fronte al contesto socio-culturale oggi dominante.
     Così situata, la riflessione morale gravita attorno a due punti fondamentali, quasi due tappe di un itinerario possibile: l’uno riguarda gli interventi diagnostici come tali, l’altro l’aborto selettivo in caso di prognosi infausta.
     1. - Gli interventi diagnostici come tali
     Il primo problema morale riguarda la diagnosi prenatale in sé stessa, più precisamente nelle finalità ch’essa si prefigge e nel rapporto benefici-rischi ch’essa comporta: in rapporto, com’è ovvio, alle diverse tecnologie oggi in uso.
     1) Le attuali tecnologie per la diagnosi prenatale
     La possibilità di esaminare il feto durante i primi mesi di gestazione allo scopo di diagnosticare eventuali anomalie è una recente acquisizione della moderna ostetricia. Tale risultato si è reso possibile con l’affinamento della tecnica di prelievo del liquido amniotico e con l’introduzione dell’indagine ecografica ultrasonica e della fetoscopia.
     Sono tecniche d’indagine note: le descriviamo sinteticamente.
     L’amniocentesi "consiste nel prelievo transaddominale di liquido amniotico verso la 16a-17a settimana di gestazione allo scopo di coltivare le cellule di desquamazione della cute e delle mucose fetali in esso sospese, ed ottenere la costituzione cromosomica del prodotto del concepimento." (1) Coltivate in vitro, queste cellule mettono in evidenza il loro corredo sia cromosomico sia enzimatico. Attraverso il corredo cromosomico si possono rilevare le eventuali anomalie dei cromosomi del feto, come per esempio la presenza di un cromosoma supplementare (trisomia 21) senza o con traslocazione D/G associata al mongolismo (sindrome di Down). Attraverso la determinazione di dati enzimi di cui si sospetta l’assenza si può invece stabilire se il feto presenta anomalie dovute a mutazioni dei singoli geni associate per lo più a gravi malattie dismetaboliche.
     L’ecografia è una tecnica d’indagine ultrasonica: "una sonda in cristallo di quarzo, posta a stretto contatto con la superficie corporea mediante un liquido adatto, eccitata da una corrente di minima intensità emette una serie di onde ultrasoniche (a frequenza di circa 1-3,5 Mhz) che si diffondono in linea retta attraversando i vari tessuti. Ogni tessuto assorbe o viene attraversato dalle onde ultrasonore, ed in parte riflette le stesse creando degli echi di ritorno che saranno proporzionali alla sua impedenza acustica. Volendo chiarire il concetto con un esempio, potremmo dire che l’acqua non riflette assolutamente gli ultrasuoni e si lascia completamente attraversare, mentre l’osso non viene attraversato ma riflette completamente onde che lo raggiungono. Tutti gli altri tessuti hanno comportamenti intermedi. Gli echi di ritorno dopo l’impatto con i vari tessuti vengono captati dalla stessa sonda che li ha emessi, e, dopo essere stati opportunamente elaborati, vengono fissati su uno schermo fluorescente..." (2)
     L’ecografia permette di valutare l’età gestazionale e quindi la maturità del feto, la localizzazione placentare, la gravidanza plurima, l’idrocefalia e l’anencefalia, le malformazioni renali (rene policistico) e della colonna vertebrale fetale, la morte del feto e tutte quelle condizioni patologiche pelviche che si possono associare alla gravidanza.
     La placentocentesi e la fetoscopia sono tecniche utilizzate per il prelievo di sangue fetale: "La prima consiste nel pungere la placenta con tecnica simile all’amniocentesi e sotto il controllo di ultrasuoni onde provocare il minor trauma possibile... Il fetoscopio è un apparecchio ottico, montato su un ago del diametro di mm 2,2 o 2,7 (a seconda dei modelli). Una volta introdotto in cavità amniotica permette la visualizzazione diretta del feto e della placenta. Individuato un vaso placentare sufficientemente grande si procede al prelievo di sangue tramite un lungo e sottile ago contenuto in una scanellatura dell’apparecchio." (3)
     Oggi per lo più questa tecnica di indagine viene utilizzata nelle gravidanze dove esiste il rischio di "talassemia" o di altre malattie che esigono il prelievo di un campione di sangue.
     2) Diagnosi prenatale: perché?
     Le tecniche di diagnosi prenatale hanno come scopo primo e immediato la diagnosi, ossia la conoscenza e l’individuazione delle eventuali anomalie o malformazioni del feto. D’altra parte questo scopo può aprirsi, e di fatto si apre, ad ulteriori scopi, che presentano una particolare importanza per il giudizio etico sulla diagnosi prenatale. Scopo morale è quello terapeutico, d’intervento cioè destinato a curare, nella misura del possibile e con i mezzi oggi a disposizione, le anomalie o malformazioni diagnosticate.
     Escludiamo, com’è ovvio, lo scopo direttamente abortivo o di pura ricerca scientifica: in quest’ipotesi gli "avanzamenti nel campo della scienza", come dice Giovanni Paolo II, si rivelano "paurosi arretramenti nel campo dell’umano". Così nel discorso ai partecipanti ad un convegno del Movimento per la Vita del 4 dicembre 1982. In particolare il Papa dice: "È chiaro pertanto che le ricerche endouterine tendenti ad individuare precocemente embrioni o feti tarati per poterli eliminare prontamente mediante l’aborto, sono da ritenere viziate all’origine e, come tali moralmente inammissibili. Ugualmente inaccettabile ogni forma di sperimentazione sul feto che possa danneggiarne l’integrità o peggiorarne le condizioni a meno che si tratti di un tentativo estremo di salvarlo da morte sicura, giacché vale per esso il principio generale che interdice la strumentalizzazione di un essere umano ai vantaggi della scienza o del benessere altrui."
     Ci fermiamo, per ora, soltanto allo scopo diagnostico e ci chiediamo: può essere, o addirittura dev’essere perseguito "comunque"?
     3) Il rapporto benefici-rischi.
     Il criterio morale che può e deve guidare la diagnosi prenatale è quello del rapporto che deve esistere tra benefici che si sperano e i rischi che si temono. Giovanni Paolo II, nel discorso sopra citato, s’interroga sulla moralità delle ricerche endouterine e così risponde: "Quali saranno, dunque, i criteri ai quali si ispirerà il sanitario desideroso di conformare la propria condotta ai fondamentali valori della norma morale? Egli dovrà innanzitutto valutare attentamente le eventuali conseguenze negative che l’uso necessario di una determinata tecnica d’indagine può avere sul concepito ed eviterà il ricorso a procedimenti diagnostici circa la cui onesta finalità e sostanziale innocuità non si possiedono sufficienti garanzie. E se, come spesso avviene nelle scelte umane, un coefficiente di rischio dovrà essere affrontato, egli si preoccuperà di verificare che esso sia compensato da una vera urgenza della diagnosi e dall’importanza dei risultati con essa raggiungibili in favore del concepito stesso."
     Un primo elemento, dunque, da considerare è il rischio connesso con la diagnosi prenatale attuata con le moderne tecnologie.
     È giudizio piuttosto diffuso e comune che le tecniche diagnostiche siano scevre da rischi per la madre come per il feto. Ma è un giudizio che va rimeditato non certo per scoraggiare gli sforzi su questa via, ma per amore di verità e per realizzare le condizioni che valgono a rendere questi sforzi più proficui. In tal senso rileviamo come "il rischio materno e/o fetale nel caso di amniocentesi sia inferiore allo 0,5%. Tuttavia nel caso di ricerca di emoglobinopatie il rischio fetale sale a circa l’8%" (4), anche se in mani esperte può scendere al 4-5%. Il rischio può riguardare la madre (per es. traumi della parete addominale e dei vasi sanguigni), come pure il feto (lesioni al feto o agli annessi fetali, talora con morte del prodotto del concepimento).
     In particolare, in circa il 2% di tutte le amniocentesi si determina un aborto spontaneo nelle 2-3 settimane successive all’intervento.
     L’indagine ecografica ultrasonica, invece, è esente da pericoli per la madre e per il feto.
     Quanto alla fetoscopia aumenta la probabilità di aborto "spontaneo": il rischio di aborto per tale metodica è dell’ordine del 10% nella casistica del prof. Rodeck del King’s College di Londra, attualmente il maggior esperto mondiale di questa tecnica.
     La presenza del rischio esige la considerazione di un altro elemento per la moralità della diagnosi: "che esso sia compensato da una vera urgenza della diagnosi e dall’importanza dei risultati con essa raggiungibili in favore del concepito stesso."
     Per questo il ricorso alla diagnosi prenatale dev’essere motivato. Quali sono le indicazioni valide per tale ricorso? Al momento si ritiene che debbano essere presi in considerazione soprattutto i seguenti gruppi: età avanzata della madre; pregressa prole affetta da sindrome di Down; pregressa prole con altre malattie cromosomiche (genitori con cariotipo normale); malformazioni del Sistema Nervoso Centrale (SNC). Ma sono in questione, sebbene discusse, altre condizioni: la presenza di malattie metaboliche nei genitori (il diabete per esempio), l’esposizione a raggi X (anche se avvenuta da due a dieci anni prima del concepimento), l’età avanzata del padre, ovulazione farma-cologicamente indotta, addirittura varianti cromosomiche dei genitori attualmente considerate senza effetto sul fenotipo dei portatori (5).
     Così, accanto ad un ricorso motivato alla diagnosi prenatale, si dà anche un ricorso immotivato. La paura di una mamma in attesa, che s’esprime con queste domande rivolte al ginecologo: "Come sarà il mio bambino? Sarà sano o difettoso?", è del tutto normale. Ma può divenire anche patologica, o quasi: e lo diventa quando si diffonde ad arte la paura ad oltranza per il feto tarato, e ancor più quando s’instaura la tendenza a generalizzare il ricorso all’amniocentesi e ad esigerlo in modo sistematico alle donne che abbiano superato 35 anni, od ancor prima.
     "Molte pazienti insistono per essere sottoposte a questo esame come a una "panacea", credendo così di poter essere rassicurate su "ogni tipo di malattia" fetale... Questo atteggiamento ignora i rischi di questo esame e ricerca una risposta che questo esame non può fornire. Molti medici oggi premono affinché sistematicamente questi esami vengano impiegati. Tutto ciò tende a propagare una mentalità propensa "se necessario" (lo ha richiesto il medico) a sostenere l’aborto eugenetico e non. Molte donne e famiglie, anche cattoliche, non riescono a cogliere il significato "culturale" di queste proposte e di fronte alla prospettiva di un "rischio aumentato" (molto spesso dall’l% all’1,5% perché la donna ha per es. 39 anni) cedono alla "tentazione" della amniocentesi. Tutto questo serve ad alimentare un "pietismo umanitario" che spesso fa apparire l’aborto come una dolorosa necessità. In questo modo poi la gravidanza, che di per sé è un evento fisiologico, viene insidiata da una congerie di "metodiche invasive" di studio come se si trattasse di una vera e propria malattia. La medicalizzazione di ogni atto umano è pericolosa perché propone alla lunga una specie di "necessità". Credo che da un punto di vista filosofico questo possa comportare dei rischi per la libertà della persona e quindi della società stessa." (6)
     Anche questa è una forma di manipolazione: "La corsa all’amnioanalisi — avendo in mente l’aborto — è un segno dell’ambiente manipolato. Ed un centro di consultazione genetica che porti avanti una routine amnioanalitica in queste circostanze può soltanto aumentare questo processo manipolativo." (7)
     L’aver sottolineato la possibilità — anzi la facilità — dell’abuso, specie nell’attuale contesto sociale e culturale, non deve minimamente far dimenticare gli innegabili valori o aspetti positivi di questi esami diagnostici: 1) anzitutto la loro specifica natura o il primo e fondamentale significato: far conoscere il più tempestivamente e sicuramente possibile una situazione di fatto; 2) inoltre il reale e prezioso servizio che questi esami recano alla maternità e alla protezione del concepito: infatti molte madri a rischio, se non si sottoponessero a tali esami, sarebbero più facilmente travolte dalla pressione socio-culturale detta e spesso anche da medici meno provveduti o volutamente abortisti e quindi di fatto interromperebbero subito la gravidanza. Come si vede, la questione ultima è di procedere con vivo senso di responsabilità insieme professionale e morale.
     2. - Prognosi infauste e aborto selettivo
     Iniziamo con qualche dato statistico circa le percentuali delle prognosi infauste e delle conseguenti decisioni abortive: "Rifacendoci alle statistiche mondiali, con le quali concordano anche i risultati della più limitata statistica italiana comprensiva di tutti i centri dove si esegue la diagnosi prenatale precoce (SIMONI e coll., 1982), il 4% circa di tali diagnosi manifesta l’esistenza di condizioni per cui lo stato di salute del soggetto umano in sviluppo, qualora giungesse alla nascita, sarebbe gravemente compromesso. Stato che nella maggioranza dei casi non condurrebbe a morte nei primi giorni o mesi di vita ma si prolungherebbe per mesi o, per lo più, per lunghi anni. È per questi casi che, nell’opinione ormai diffusissima negli ambienti scientifici e medici è diventata comune patrimonio della cultura attuale, l’interruzione della gravidanza sarebbe un diritto -- anzi per alcuni un dovere -- dei genitori... Questa opinione si è imposta con tale facilità che ormai nei casi in cui la diagnosi prenatale è infausta, l’interruzione della gravidanza è diventata un intervento ordinario a cui si sottopongono quasi tutte le gestanti. Per riferirmi sempre alla casistica italiana al dicembre 1978 comprendente 3270 esami, dei 126 feti diagnosticati come certamente affetti (malattie genetiche, associate o ad aberrazioni cromosomiche o a difetti genici, 119 (94,4 %) hanno subito l’intervento abortivo." (8)
     La correlazione fra diagnosi prenatale e aborto eugenetico o selettivo solleva molteplici problemi, che possono ricondurre alle seguenti prospettive: 1) morale, 2) legale, 3) pastorale, 4) consultoriale.
     1) La prospettiva morale
     Il primo e fondamentale interrogativo è questo: è moralmente lecito o illecito interrompere la vita di un feto quando è stato diagnosticato con certezza come tarato o difettoso?
     Per alcuni il feto difettoso non avrebbe diritto alla sopravvivenza perché la sua vita non sarebbe umana! Così Harry David Aiken del dipartimento di filosofia della Brandeis University: "Il diritto alla sopravvivenza biologica è interamente dipendente dalla capacità dell’individuo in questione di condurre, con l’aiuto di altri, una vita umana. Ciò significa che nelle circostanze dove non esiste possibilità di una vera vita umana, il diritto alla sopravvivenza biologica o fisica perde la sua ragione d’essere e quindi che la pietosa interruzione di questa vita è accettabile o forse anche obbligatoria. Va riconosciuto ai genitori di accettare l’onere di curare un figlio che non ha la capacità di godere una vita umana... ma quando tale cura danneggia seriamente il benessere di altri questo diritto deve cedere il posto ad altre più forti esigenze." (9) Ma è, questa, una posizione del tutto infondata a livello sia scientifico sia filosofico: pensiamo non necessario attardarci, data l’evidente insostenibilità della posizione; rimandiamo alla valutazione critica fatta altrove (10).
     Per altri, in questi casi precisi, "l’aborto è la migliore tra due scelte infelici". L’espressione è di Mac Intyre, il genetista che per primo osservò la possibilità di coltivare le cellule fetali di liquido amniotico: "Al fine di prevenire la nascita di un bambino terribilmente difettoso e la distruzione emotiva ed economica della famiglia l’aborto è la migliore tra due scelte infelici." (11) Da un lato viene riconosciuto il diritto alla vita del feto, anche se gravemente difettoso; dall’altro lato però si afferma che tale diritto deve cedere di fronte a gravi ragioni e ad altri prevalenti diritti contrastanti che, presi nel loro insieme, giustificherebbero, rendendolo lecito, l’aborto.
     Ma anche questa posizione è inaccettabile, perché equivoca, incongruente. Anche ammessa la cosiddetta "bilancia dei valori", come definire chi "vale" di più? In realtà la vita di tutti e di ciascuno è un "assoluto", sicché nel diritto alla vita non si danno preferenze (12). E se non si danno tra vita e vita, a maggior ragione non si danno tra "essere" del feto e "benessere" della madre o della famiglia (o della società)!
     La posizione della Chiesa cattolica è più che nota: il feto, anche se difettoso, è un essere umano e proprio perché tale ha un diritto inalienabile alla vita. Riferiamo qui alcuni interventi del Magistero della Chiesa, dai quali emerge, insieme all’affermazione del diritto alla vita del feto difettoso, anche la sua giustificazione, con una particolare sensibilità all’aspetto della sofferenza in gioco.
     Parlando ai partecipanti al 5o congresso internazionale di ostetricia e ginecologia psicosomatica, il 19 nov. 1977, Paolo VI diceva: "Ma non dovete mai dimenticare anche che la vostra professione è a servizio della vita umana, di ogni vita umana dall’istante del suo concepimento. Le malformazioni organiche — quando capita questa disgrazia — non possono privare nessun essere umano della sua dignità e del suo inalienabile diritto all’esistenza: vedere le cose diversamente sarebbe avere una visione materialistica della vita. E soprattutto non può (un medico cattolico) dopo aver formulata una diagnosi fetale, cedere a pressioni, sia pure apparentemente le più rispettabili, come quelle dei genitori che vorrebbero ricorrere alla sua scienza per sfuggire alla prova di mettere al mondo un bambino gravemente handicappato. Profonda responsabilità la vostra!"
     Giovanni Paolo II, nell’omelia della messa per i lavoratori a Saint-Denis, il 31 maggio 1980, esaltava la maternità come espressione di fede nell’uomo e precisava: "Questo bambino potrà essere debole, inadatto, perfino deficiente. Così avviene talvolta. La maternità è sempre un dolore... Questo dolore può estendersi a tutta la vita del bambino. Il valore dell’umanità è confermato anche da questi bambini, da questi uomini nei quali essa è ritardata e subisce talvolta una dolorosa degradazione. È un elemento in più per dire che non basta definire l’uomo secondo tutti i criteri bio-fisiologici e che bisogna credere fin dall’inizio nell’uomo."
     E nell’esortazione postsinodale Familiaris consortio: "Ma la Chiesa crede che la vita umana, anche se debole e sofferente, è sempre uno splendido dono del Dio della bontà. Contro il pessimismo e l’egoismo, che oscurano il mondo, la Chiesa sta dalla parte della vita: e in ciascuna vita umana sa scoprire lo splendore di quell’"amen", che è Cristo stesso (cfr. 2 Cor. 1, 19; Ap. 3, 14)." (n. 30)
     In modo più specifico, in diretto riferimento al nostro tema, Giovanni Paolo II nel citato discorso al Movimento per la vita, affermava: "Vi sono purtroppo malformazioni, derivanti spesso da malattie cromosomiche, che sfuggono, almeno per ora, ad interventi terapeutici di carattere risolutivo. Anche in questi casi la medicina farà quanto è in suo potere per alleviare le manifestazioni del morbo, ma si guarderà scrupolosamente da ogni trattamento che possa costituire una forma larvata di aborto provocato. Il portatore di tale anomalia, infatti, non perde per questo le prerogative proprie di un essere umano, al quale deve essere tributato il rispetto a cui ha diritto ogni paziente." (4 dicembre 1982)
     Ricordiamo, infine, la Dichiarazione sull’aborto procurato della S. Congregazione per la Dottrina della Fede (18 nov. 1974). Dopo aver riconosciuto alcune gravissime difficoltà, come quando "ci sono buone ragioni per temere che il figlio sarà anormale o rimarrà minorato", il documento asserisce: "si deve senz’altro affermare che mai alcuna di queste ragioni può conferire oggettivamente il diritto di disporre della vita altrui anche in fase iniziale; e, per quanto concerne l’infelicità futura del bambino, nessuno, neppure il padre o la madre, può sostituirsi a lui, neanche se è ancora allo stato embrionale, per preferire a suo nome la morte alla vita. Egli stesso, raggiunta l’età matura, non avrà mai il diritto di scegliere il suicidio; tanto meno, dunque, finché non ha l’età per decidere da solo, potranno essere i suoi genitori a scegliere la morte per lui. La vita, infatti, è un bene troppo fondamentale perché possa essere posta a confronto con certi inconvenienti, benché gravissimi." (13)
     2) La prospettiva legale
     Con la legge 194/1978 è entrata in Italia la legalizzazione dell’aborto in taluni casi. Ci si chiede, pertanto se l’aborto eugenetico o selettivo sia stato anch’esso legalizzato.
     Ci interessa l’art. 6 della 194 che così recita: "L’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna."
     B. Orsini commenta: "La formulazione della legge imprecisa sia sotto il profilo tecnico-giuridico come sotto il profilo tecnico-sanitario. Ma essa pone, in termini perentori, il problema dell’accertamento delle anomalie o delle malformazioni del concepito." (14)
     Personalmente ritengo che la legge italiana accetti "indirettamente" l’aborto eugenetico o selettivo, in quanto accetta l’aborto terapeutico nel senso di un’interruzione volontaria di gravidanza per "un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna". Di qui la tendenza in atto di utilizzare per lo più una certificazione psichiatrica, che sostiene il danno psicologico per la donna che dovesse proseguire questo tipo di gravidanza.
     Comunque il testo legislativo parla di processi patologici "accertati", di anomalie o malformazioni "rilevanti" che determinino un pericolo "grave": ma come precisare il "rilevante" e il "grave"?
     Parliamo, com’è ovvio, di aborto "legalizzato": sotto il profilo propriamente morale, si deve affermare che "la legge umana può rinunciare a punire, ma non può dichiarare onesto quel che sarebbe contrario al diritto naturale, perché tale opposizione basta a far sì che una legge non sia una legge. Dev’essere, in ogni caso, ben chiaro che un cristiano non può mai ubbidire ad una legge intrinsecamente immorale, e questo è il caso di una legge che ammettesse, in linea di principio, la liceità dell’aborto." (15)
     3) La prospettiva pastorale
     Il giudizio morale sull’aborto eugenetico non può limitarsi al piano oggettivo, deve estendersi anche al piano soggettivo della donna coinvolta. Entriamo così in un ambito che potremmo giustamente chiamare pastorale quello cioè dell’aiuto che la comunità cristiana è chiamata a dare in queste difficili o drammatiche situazioni. Illuminante ci sembra un passo del documento della CEI, Il diritto a nascere, dell’11 gennaio 1972: "Un altro doloroso problema è sollevato dalle diagnosi di malformazione. Esse si pongono spesso in termini di probabilità e non di certezza: pertanto occorre mettersi in guardia contro il pericolo di esagerate apprensioni; mentre è auspicabile che la scienza riesca presto ad intervenire con opera di correzione e di recupero. In particolare, la gravidanza segnata da prognosi infausta, chiede, oltre alla chiara visione dei motivi generali a favore della vita, quella capacità di amore e di speranza, che lo Spirito Santo dona a chi, comunicando intimamente nella fede con i patimenti di Gesù Cristo dice di sì alla vita con totale disponibilità." (n. 12)
     Ci restringiamo ad alcuni rilievi.
     Il primo riguarda la responsabilità morale di chi giunge, in simili casi, alla scelta abortiva. Non v’è dubbio che ci si trova di fronte ad un gravissimo "disordine" morale. Ma può, essere difficilissimo valutare la "colpa", attesi i notevoli condizionamenti, soprattutto di natura psicologica e sociale, cui può soggiacere la donna. In questi casi rivestono un particolare valore le parole del citato documento della CEI: "Il cristiano deve sentire il dovere di astenersi da ogni giudizio di condanna." (n. 11) "Per chi vive in proprio questa tragedia, e non semplicemente scrive o legge di essa, i problemi di ordine psicologico, emotivo e religioso che ne emergono sono gravissimi e chi debba assumersi la responsabilità di accettare o sacrificare un bambino fortemente tarato, qualunque sia la decisione, esce stremato dal conflitto. Per quanto la decisione di far proseguire la vita ad un essere così sprovveduto possa enormemente pesare, bisogna dire che la vita, anche così mutilata, va rispettata." (16)
     Il secondo rilievo pone in luce la necessità di possedere — coltivandole da tempo, sin dall’adolescenza e giovinezza, comunque accedendo al matrimonio — chiare e ferme convinzioni sul valore della vita umana e sulla sua indisponibilità in tutte le sue condizioni. Si tratta di convinzioni che possono e devono metter radici nella ragione umana, ma che trovano la loro profondità e graniticità nella fede cristiana, che permette di riconoscere e di accogliere il valore di una vita umana "disgraziata".
     L’Episcopato del Texas scriveva nell’aprile 1971: "Dobbiamo dissentire dall’opinione secondo la quale un individuo non può essere qualificato membro della specie umana finché tutti gli attributi, le caratteristiche e le potenzialità dell’uomo non siano in lui presenti e pienamente sviluppati... Il valore e la santità della vita umana poggiano in ultima analisi sul singolare valore che Dio ha posto in essa. Non si fonda sulla bontà, sull’età, sull’importanza sociale dell’individuo, oppure sul fatto che sia normale o desiderato, o ancora sulla previsione che egli sarà di peso o di vantaggio per gli altri."
     E i Vescovi francesi: "Per la Bibbia la vita è benedizione di Dio... Sulla via che conduce a questo fine (il Regno) si possono incontrare, talvolta fin dall’inizio difficoltà o mali che possono far dire e che hanno fatto dire: la vita in queste condizioni è piuttosto una maledizione che giustifica la sua soppressione. Ma questo è un modo di parlare che va contro la fede e la speranza in Dio nostro Creatore che ci salva con la Croce di suo Figlio. Noi speriamo, nonostante e contro tutto, che i disegni del Creatore si compiano, e si compiranno... La speranza secondo la nostra fede va fino alla convinzione — e qui siamo proprio nel cuore della fede in Cristo — che Dio trae dal male il bene, e dal più gran male il più gran bene. Se una vita sembra più una maledizione che una benedizione, il cristiano non dice che in essa non c’è alcun male, ma crede fermamente che ci sia, nel fondo di quel male, una volontà di amore di Dio che trae il bene dal male che egli non ha fatto né voluto..." (Nota dottrinale sull’aborto, 13 febbraio 1971)
     L’Episcopato Olandese scrive: "Si deve lasciare alla forza della fede nella grazia divina la possibilità di operare là dove le forze umane lasciate a sé stesse minacciano di venire meno... Anche la visione cristiana in un senso possibile della sofferenza umana deve essere qui menzionata... Non si tratta di una glorificazione disumana della sofferenza in quanto tale: il cristiano deve fare di tutto per prevenirla, risanarla, mitigarla... Però dobbiamo evitare la tendenza a ritenere una determinata concezione della integrità umana come così assoluta da far propendere a far scomparire la vita umana stessa: in una tale mentalità il senso della vita umana viene ad essere troppo equiparato con l’essere liberi dalla sofferenza. Così si perdono di vista le giuste proporzioni. Così si blocca forse una via che passa sì attraverso la sofferenza, ma che finalmente conduce ad una felicità umana più profonda..." (Lettera pastorale sull’aborto, 24 febbraio 1971)
     Le citazioni si possono facilmente moltiplicare. Basterà qui rilevare come in simili situazioni difficili e incresciosissime diviene del tutto indispensabile un’opera educativa o culturale, già faticosa in sé stessa e ancor più faticosa nel contesto di materialismo e di utilitarismo imperante. Le ragioni del "sì" alla vita anche in questi casi si possono più facilmente comprendere e vivere se le persone coinvolte s’incontrano con precise testimonianze di vita vissuta, sia dei singoli sia delle comunità ecclesiali. Solo così è possibile rispondere a chi ha scritto: "Fatemi capire perché bisogna difendere il diritto alla vita di migliaia di esseri deformi, inadatti, incompleti, che riempiono quel museo degli orrori che è il Cottolengo." (17)
     Emerge, a questo punto, un altro elemento pastorale di estrema importanza: l’elemento della solidarietà. Se la persona sottoposta ad una prova così sconvolgente non è lasciata sola, ma viene assicurata, per presente e per l’avvenire, dell’aiuto — morale e materiale — per sostenere i tanti e gravi problemi del sussistenza e dell’educazione del bambino difettoso, può dire di "sì" alla vita. I Vescovi italiani, parlando della gravidanza indesiderata, hanno detto: "Un’autentica testimonianza di solidarietà umana e cristiana verso di lei (donna), la dispone a riscoprire nonostante tutto, il divino disegno di amore sulla sua vita e su quella del figlio." (II diritto a nascere, n. 11) È stato scritto anche: "In particolare la comunità parrocchiale dovrebbe impegnarsi per iscritto, qualora la famiglia non potesse in seguito provvedere al proprio figlio minorato, la parrocchia tutta si assumerebbe il compito di sostenerlo e di assisterlo." (18)
     4) La prospettiva consultoriale
     Il rapporto tra prognosi infausta e aborto selettivo presenta un particolare interesse per tutte quelle persone che sono impegnate nell’attività dei consultori familiari.
     a) È da sottolinearsi, anzitutto, come l’opera più diligente e preziosa della consulenza sia la prevenzione. Proprio in questo senso, nel suo discorso più volte citato, Giovanni Paolo II diceva: "A questo proposito converrà intanto ribadire che molte malformazioni congenite, essendo di natura ereditaria, possono essere opportunamente prevenute in sede di consultorio matrimoniale, tenendo presenti i sempre validi orientamenti indicati in questa materia dal Papa Pio XII (cfr. Discorso ai partecipanti al VII Congresso internazionale di ematologia del 12 sett. 1958). Le scoperte del P. Gregorio Mendel, e della genetica che da essa prese origine, consentono di quantificare il rischio di malattie ereditarie. Compito del sanitario responsabile sarà perciò quello di valutare, nel vasto ambito delle informazioni possibili, quelle che risultano probabili sulla base di un attento studio dell’albero genealogico delle persone interessate a chiamare alla vita un nuovo essere." (4 dicembre 1982)
     b) Per il particolare coinvolgimento personale che la diagnosi prenatale implica, e per le molte tensioni psichiche (più o meno palesi) che essa scatena, è utile se non addirittura necessario premettere agli esami una consulenza genetica. Questa avrà il duplice scopo di: 1) accertare l’esistenza o meno di un’indicazione per la diagnosi prenatale; 2) offrire tutte le notizie sui rischi, problemi e limiti degli esami richiesti in modo che i richiedenti giungano a conoscenza di tutti gli elementi indispensabili per una scelta informata dell’esame stesso.
     c) Il rapporto tra consulente (medico, psicologo, assistente sociale, ecc.) e coppia richiedente dev’essere di reciproca accoglienza e fiducia, atteggiamenti estremamente necessari in queste circostanze. Scrive opportunamente A. Serra: "In realtà pur non essendo un esame che direttamente tende all’aborto, anzi al contrario tende a rassicurare la coppia della sanità del feto — poiché il massimo rischio globale di diagnosi infausta è sulla base delle statistiche pubblicate in molte nazioni europee ed extra-europee, del 4-6% — tuttavia, come lo dimostrano l’esperienza e ricerche psicoanalitiche lo confermano, ogni coppia portando con sé l’ansia e il timore di una diagnosi infausta porta anche, e lo manifesta in diversi modi, un forte conflitto sulla decisione che sarebbe presa in tal caso. Soltanto un colloquio aperto, tenendo presente il principio del rispetto delle opinioni e convinzioni, potrà riuscire a rendere meno penoso il periodo di attesa della diagnosi e a far maturare una decisione — qualunque essa sia — più consapevole e meno traumatizzante." (19)
     d) Ci si deve chiedere se è possibile la neutralità nella consultazione genetica nei casi di prognosi infauste. Non mancano consulenti che fanno della non-direttività un mito. Ma come limitarsi a fornire informazioni strettamente neutrali, quando si confrontano tra loro non una persona (il consulente) e un "caso medico" (la donna, o la coppia), bensì due persone? di più, quando ambedue queste persone non possono non confrontarsi con una terza persona, il nascituro? In particolare la neutralità, in queste precise circostanze, costituisce un’offesa alla persona o alla coppia nel momento in cui sta per essere assunta una decisione così grave e così gravida di conseguenze: sia per il "sì" sia per il "no" alla vita. Questa neutralità è "un genere di manipolazione", perché "dopotutto suggerisce che un aborto compiuto per evitare il rischio di un bambino handicappato è qualcosa di neutro come l’informazione." (20)
     Così dicendo non si vuole certo suggerire di invadere ingiustamente la coscienza personale e di sostituire la decisione personale della persona coinvolta. Scrive ancora l’Häring: "Il modo giusto di dare l’informazione sarebbe quello di far capire che per loro non si tratta di una decisione neutra ma di una delle più gravi conseguenze che coinvolge i più alti valori umani." (21)

Dionigi Tettamanzi
Custodi e servitori della vita
problemi medico-morali

Edizioni SALCOM, Brezzo di Bedero (VA) 1985, p. 303-322




Aborto